Comprendere l’arte significa andare oltre l’arte stessa. Significa impiegare la forma in cui essa si rivela per farne il contenuto della nostra immaginazione, lasciarsi ispirare dallo stile e dal sentimento inscritti nel linguaggio visivo dell’autore (la delicatezza, l’irruenza, l’ardore, la malinconia, la pace) e peregrinare in luoghi, anche quando differenti, analoghi all’immagine che abbiamo di fronte. Non è mai, questa, una dipartita, un abbandono dell’attenzione, quanto invece una direzione acquisita cui rimaniamo legati per gratitudine e principio di causalità.
L’oggetto dell’arte non può riempire l’interrogativo estetico dell’osservatore.
Sibylle Geiger è un’artista capace di adempiere a questo compito, se non per consapevolezza ragionata, per intuitiva sensibilità. Nei suoi dipinti ad olio gioca con le forme, i colori e le impressioni esattamente al modo in cui andrebbero impiegati i concetti e le percezioni quando si dà un pronunciamento sul mondo. Traccia e interseca linee con leggerezza, sussurra forme riconoscibili con poche macchie di colore accostate con il gusto di chi sceglie le stoffe di un abito di scena, citando codici semantici che provengono da altre esperienze artistiche come la scenografia e i costumi per il teatro. Tra sapori impressionisti e un’aura surreale, offre visioni di luoghi che sembrano rievocarne i profumi e le atmosfere; non ritrae ciò che vede, tocca e fa risuonare le corde di sensazioni che ha provato quando era là davanti allo spettacolo della natura o dell’umanità nei suoi contesti cittadini o di strada o ideali.
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Ad Aigues-Mortes, siamo con Sibylle nel profilo di una città sospesa sul suo riflesso etereo, guardiamo con la distanza necessaria l’esempio di quei luoghi necessari alla nostra quotidianità: le strade, i palazzi, i monumenti, che sia Napoli o Parigi; scorci e vedute il cui rivelarsi nella loro identità attraverso rapide macchie di colore diventa una sola cosa con le impressioni che l’artista ne ha tratto e con lei noi - chissà quante volte nella nostra esperienza percettiva, forse senza che ci fermassimo a considerarne la bellezza e il respiro riflessivo.
In Bosnia il dolore senza volto di una madre che stringe tra le braccia un bambino giunge a noi in quell’anonimato che rammenta il dolore di una condizione universale, quando la tragedia incombe, come in Angoscia, e quel suo rosso vivo che sta dentro e fuori della figura abbozzata.
Sorprende il senso particolare che assume in alcuni quadri il disegno di “curve di contenimento” (Violenza, Tempio di Mitra, Peschici, Intrappolate), linee che sembrano delimitare qualcosa che va custodito e partecipato ma che allo stesso tempo costringono e catturano. Icona, simbolo del desiderio che ha la forza di liberare e subordinare, del doppio valore di legame a ciò che si ama o da cui si è amati, la bellezza e l’ansia della dipendenza, il bisogno di avere e insieme di essere, essere per gli altri e essere per se stessi.
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Il sogno di una Chimera, di una Città ideale, la visione di una Metamorfosi, il profumo di una Macchia etrusca o l’incanto della Campagna toscana sono l’insieme di un volo a planare su cose umane o care all’umanità, trasfigurate nell’arte come oggetto che non esaurisce il proprio fine nella rappresentazione, ma indica l’inizio di un cammino interiore. Poiché l’arte non si risolve in ciò che da essa ci aspettiamo, ma è ciò che sappiamo interrogare quando suscita in noi una domanda.
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